Mite la sanzione all’arbitro che offende la reputazione del collega non presente, ma il giudice di appello non applica d’ufficio la reformatio in pejus (F.I.R. - Decisione n. 7/S.S. 2020 – 2021/CFA del 23/07/2021)
Titolo |
Mite la sanzione all’arbitro che offende la reputazione del collega non presente, ma il giudice di appello non applica d’ufficio la reformatio in pejus |
Estremi provvedimento |
F.I.R. - Decisione n. 7/S.S. 2020 – 2021/CFA del 23/07/2021 |
Massime |
a) Non è inesistente l’atto di appello privo di firma, ma digitale, la cui provenienza e riferibilità siano comunque accertate ovvero non contestate;
b) non lede il diritto di difesa la formulazione in sentenza di una diversa definizione giuridica, da parte del giudice, rispetto all’atto di incolpazione, del medesimo fatto storico accertato;
c) non sussiste per l’incolpato l’obbligo di verità in sede disciplinare, ma solo l’obbligo di rispondere alla convocazione;
d) i tesserati, ai sensi dell'art. 20, c. 1, R.G. – F.I.R., hanno l’obbligo di comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto riferibile all’attività sportiva o comunque federale;
e) non può il giudice di appello riformare in pejus, d’ufficio, la sanzione comminata. |
Keywords |
Dichiarazioni lesive, reputazione, diritto di difesa, disciplina |
Commento/Sintesi |
La Corte federale di appello della F.I.R. - Federazione Italiana Rugby - ha confermato la sanzione comminata in primo grado dal Tribunale federale nei confronti di un arbitro che, poco prima dell’incontro tra Calvisano e Lazio del 19 dicembre 2020, per il quale risultava designato come direttore di gara, proferiva affermazioni lesive della reputazione personale e familiare di altro tesserato arbitro non presente.
In particolare, il Tribunale federale condannava l’incolpato alla pena di un mese di interdizione, per un verso, non ritenendo applicabile l’art. 21, n.1, R.G. – F.I.R. in quanto le frasi pronunciate non potevano considerarsi destinate alla pubblica ostensione, per altro verso, accertando, invece, la violazione dell’art. 20, n. 1, R.G. – F.I.R., posto che le espressioni oggetto di valutazione disciplinare integravano una violazione dei principi di lealtà, correttezza e probità che ogni tesserato deve osservare nello svolgimento dell’attività sportiva e federale.
Il Tribunale, inoltre, rigettava la richiesta di condanna aggravata, formulata ai sensi dell’art. 10, lett. d) e g), – R.G. – F.I.R. dalla Procura federale, non sussistendo per l’incolpato in sede disciplinare un obbligo di dire il vero sui fatti contestati.
La decisione di primo grado veniva impugnata avanti alla Corte superiore da entrambe le parti coinvolte.
Il tesserato, infatti, assumendo che l’iniziale incolpazione, ai sensi dell’art. 20 R.G. – F.I.R., fosse riferita esclusivamente al fatto di aver reso dichiarazioni mendaci alla Procura e che la condanna impugnata derivasse, invece, dalle affermazioni lesive della reputazione altrui rese nel pre-partita, lamentava l’immutazione dell’originario addebito disciplinare e un conseguente vulnus difensivo.
La Procura federale, d’altra parte, contestava la motivazione del Tribunale per non aver considerato l’attitudine alla diffusione pubblica delle affermazioni lesive oggetto di giudizio – trattandosi di fatti che avrebbero dovuto essere riportati nel referto di gara – e per non aver tenuto conto della esclusione – sia in sede di Statuto F.I.R., art. 13, che ai sensi dell’art. 20 R.G. – di un “diritto di mentire” del tesserato. L’intervenuto avvicendamento del collegio difensivo dell’incolpato, infine, introduceva successivamente una ulteriore contestazione alla decisione di primo grado, inerente questa volta l’inesistenza o comunque la nullità dell’atto di appello della Procura federale, in quanto sottoscritto con firma autografa e non digitale, ciò con violazione dei requisiti formali applicabili.
Riunite le due impugnazioni, la Corte di appello federale esaminava, dapprima, la doglianza formale dell’inesistenza e nullità dell’atto sottoscritto con la sola firma autografa, confermando la validità di quest’ultimo in quanto, nel caso di specie, la sua provenienza e riferibilità alla Procura federale risultavano accertate e comunque non contestate.
La Corte chiariva poi come – in linea con il sistema processuale penale e con il suo art. 521 c.p.p. – sussista anche in sede di giustizia sportiva il potere del giudice di ridefinizione giuridica, rispetto alla precedente fase dell’incolpazione, del medesimo fatto che risulti accertato, e senza che ciò possa determinare quella lesione del diritto di difesa che, invece, sarebbe determinata dalla contestazione di un fatto radicalmente diverso.
Con riferimento, invece, all’impugnazione della Procura, il giudice di appello evidenziava, da un lato, l’esigenza di sottoporre alla valutazione disciplinare i soli fatti effettivamente verificatisi (nel caso di specie, le affermazioni lesive proferite dal tesserato) e non anche i fatti meramente potenziali e, quindi, non avvenuti (ovvero, l’astratta diffusibilità pubblica delle predette affermazioni, in realtà non verificatasi nel caso concreto) e, dall’altro lato, l’inesistenza nell’ambito federale di un obbligo di verità del tesserato, in ragione sia dell’immanente principio giuridico del “nemo tenetur se detegere”, ovvero del divieto di autoincriminazione, che dell’assenza di qualsivoglia previsione espressa in tal senso, residuando, invece, quale obbligo palese per il tesserato soggetto a procedimento disciplinare, quello di rispondere alla convocazione ex art. 20, n. 3, R.G. – F.I.R..
In ultimo, confermata, quindi, la natura lesiva delle affermazioni proferite dal tesserato arbitro A.S. in violazione dell’art. 20 R.G. – F.I.R., la Corte federale – pur criticando la mitezza della sanzione irrogata con la sentenza di primo grado – ha escluso, invece, il potere autonomo del giudice superiore di riformare in pejus la condanna, trattandosi – in sede di appello – non di un giudizio nuovo, ma di una revisione del procedimento a quo, e considerando, altresì, come, nel caso di specie, la richiesta di inasprimento della condanna – pur formulata dalla Procura federale – risultasse in effetti collegata a motivi di impugnazione rigettati.
Respinte così le impugnazioni presentate, la Corte federale di appello ha confermato la decisione del Tribunale federale e, quindi, la sanzione ivi comminata al tesserato. |
Autore |
Patrizio Rubechini, Componente Corte di Appello FIPSAS |