TRISSINO Gian Giorgio
-
Vicenza 22.07.1877 / Milano 22.12.1963
1900. Equitazione. MEDAGLIA D’ORO Salto in Alto. Medaglia D’ARGENTO Salto in Lungo. 4° Salto in Alto
Il nome completo all’anagrafe, per l’esattezza, è Giovanni Giorgio Trissino del Vello d’Oro, col titolo nobiliare di Conte di Trissino e Valdagno Castelvecchio. Erede di una grande famiglia aristocratica vicentina che nel Medioevo si vede attribuire l’investitura feudale ed a lungo governa la valle dell’Agno. Tra i suoi antenati anche un famoso letterato ed umanista, suo omonimo. Allievo dell’Accademia Reale di Torino, poi della Scuola Militare di Pinerolo, Sottotenente di cavalleria del reggimento Genova dal 10 ottobre 1898, Trissino ama i cavalli e si cala alla perfezione nel ruolo del cavaliere senza macchia e senza paura, integerrimo, gentleman e sportsman a tutti gli effetti, in un periodo, quello di fine ‘800, dove impera la Belle Epoque. Cavalca con disinvoltura, ammirato ed ammirevole. Ha un grandissimo maestro, Federico Caprilli che, con le sue vittorie in diversi concorsi internazionali, sta portando la cavalleria italiana ai vertici mondiali grazie anche a metodi innovativi e rivoluzionari cui Trissino si adegua, in un certo senso miscelando i due stili, il “vecchio”, di stampo ottocentesco, ed il “nuovo” che tende ad esaltare il movimento naturale del cavallo, assecondandolo e mai forzandolo, cercando di instaurare con l’animale un assieme armonico, sinergico, empatico ed equilibrato. Questo “sistema naturale”, come sarà poi chiamato, è ancora in fase embrionale (sarà difatti codificato ufficialmente nel 1902), ma sono già visibili i suoi prodromi e le prove di Parigi sembrano giungere al momento ideale per esaltare questa innovativa concezione di cavalcare e, soprattutto, saltare. Tutti i cavalieri però non sono a conoscenza del fatto di partecipare ai Giochi Olimpici: credono difatti di gareggiare nelle prove dell’Esposizione Universale cui, per un programma assolutamente caotico e bislacco, le competizioni olimpiche sono associate senza distinzione. Caprilli è il favorito, Trissino appare un suo fido scudiero, ma è in agguato il colpo di scena. Il Ministero della Guerra blocca l’espatrio di Caprilli che è costretto giocoforza a rinunciare alle gare, per un caso mai chiarito e legato probabilmente ad invidie e dispetti tra ufficiali.
Una leggenda vuole che, addirittura, Caprilli abbia sostituito in sella Trissino nella prova di salto in lungo...leggenda, appunto. Come spesso accade, il maestro supera l’allievo: Trissino, che ha appositamente richiesto una licenza “per motivi di famiglia” al fine di preparare al meglio le gare parigine, sfrutta l’opportunità ed il 31 maggio, nella Place du Breteuil dove si tengono tutte le manifestazioni olimpiche equestri, coglie l’argento nel salto in lungo, montando il cavallo Oreste[1] e saltando 5.70m, ma cadendo nella fase finale. L’oro va al belga Van Langhendonck, con 6.10m ed il bronzo al francese de Prunelé con 5.30 m. Due giorni dopo, il 2 giugno, su un fondo appesantito dalle recenti piogge, Trissino conquista la prima medaglia d’oro italiana ai Giochi in assoluto, nella prova di Salto in Alto, con 1.85m, in sella ancora ad Oreste, a pari merito col francese Gardères; bronzo al belga Van der Poele e 14 i partecipanti. Nella stessa prova, come lo consente lo strambo regolamento dell’epoca, Trissino salta anche con un altro cavallo, Melopo[2], ma giunge solo 4°. Dopo le gare di Parigi, Trissino rientra in servizio nell’Esercito il 23 agosto 1900, ma continua a gareggiare: brilla nel concorso di Londra del 1909 dove è secondo nella Coppa delle Nazioni, in sella a Palanca. Abbandonata l’attività e la carriera militare col grado di Capitano, Trissino gira alcuni cortometraggi le cui vicende si sviluppano proprio nel mondo dell’ippica (“Così è la vita”, “Eroismo di donna”, “Giudice e padre”) dove è regista e protagonista con Gemma Albini che poi diventerà sua moglie. Talento poliedrico e ben voluto dal mondo aristocratico (sarà accolto alla corte del Re Vittorio Emanuele III), si dedica poi, con un certo successo, anche all’attività di compositore, ma diradando i suoi impegni e contatti col mondo dello sport.
**************************************************************************************************************************************************************** ********************************************
L’EREDITA’ DI CAPRILLI[3]
di Carlo Cadorna
Non a caso, il vero “uomo che sussurra ai cavalli” ha sostenuto che Caprilli è stato l’autentico Genio della storia italiana: infatti, un semplice Capitano, noto più per le Sue avventure galanti che per la Sua preparazione culturale, ha inventato, alla fine dell’’800, un metodo per utilizzare il cavallo come un vero atleta, secondo i principi più moderni delle scienze motorie e dell’osteopatia. L’invenzione è derivata dalla semplice osservazione di un cavallo scosso mentre saltava ostacoli di notevoli dimensioni: Caprilli notò come il cavallo poteva farlo agevolmente nella misura in cui poteva utilizzare liberamente l’incollatura e le reni che insieme costituiscono la linea dorsale del cavallo. La spiegazione tecnica non è molto difficile da comprendere se si pensa all’affinità esistente con il movimento dell’uomo che utilizza le braccia invece dell’incollatura del cavallo. Come il movimento delle braccia è la prima cosa che si insegna agli atleti umani, perché produce e facilita l’oscillazione dorsale, così nel cavallo bisogna partire dal giusto uso dell’incollatura che, con la sua oscillazione, provoca la flessione delle articolazioni lombo-sacrale e coxo-femorale la cui conseguenza è la disposizione delle leve posteriori nella posizione che produce il massimo sforzo utile: quando la bisettrice che parte dal garretto va verso l’avanti-alto. In queste condizioni il cavallo raggiunge il perfetto equilibrio ed è in grado di partecipare attivamente, con propria soddisfazione, alla realizzazione del salto come di qualsiasi altro esercizio. L’invenzione di Caprilli si innesta negli insegnamenti che Egli ebbe dal Suo istruttore, il cav. Cesare Paderni, autore delle “Lezioni d’Equitazione-Corso Magistrale”, edite nel 1892, che si richiamavano al classico testo “Trattato di Equitazione” del Conte D’Aure: un’equitazione basata sull’impulso che si manifesta attraverso la tensione dorsale che, opportunamente filtrata dalla mano del cavaliere, ottiene l’equilibrio. Nell’epoca attuale, il conseguimento di prestazioni di altissimo livello nell’atletica umana dipende dallo sviluppo della capacità motoria degli organi propulsivi: nel cavallo è più difficile ottenerla che nell’uomo perché ha quattro zampe ed è necessario che spingano sullo stesso asse, pena la perdita di parte della spinta. Vi è una sola modalità per tenerlo diritto ed è quella di sviluppare la sua capacità di spinta attraverso una tensione dorsale, che non è mai troppa, su di una mano pari. È penoso osservare come ancora oggi nel mondo equestre è estremamente diffusa la convinzione che siano utili le flessioni (in particolare quelle dell’incollatura) che interrompono la trasmissione dell’impulso. In campo umano, lo sviluppo della capacità motoria degli organi propulsivi si ottiene attraverso “lo sviluppo della funzione di flesso-estensione”: non vi è alcuna ragione perché non si debba fare lo stesso in campo equestre attraverso quegli esercizi che amplificano la funzione, a cominciare dal passo allungato che può essere utilizzato sia nel lavoro montato che, soprattutto, in quello a mano.
Il Cap. F. Caprilli è mancato per un incidente nel 1907 ma ha lasciato oltre ad alcuni appunti e scritti pubblicati postumi[4], un corpo insegnante di solida conoscenza e capacità al quale aveva dedicato gli ultimi anni. Ne ho avuto testimonianza diretta da mio Padre, Raffaele Cadorna, formato appunto da uno degli istruttori che si erano perfezionati alle dipendenze dirette di Caprilli: il Col. Piero Dodi, fondatore della Federazione Italiana Sport Equestri. Questo patrimonio di conoscenze si è trasmesso negli anni fino al 1943[5] ed avendone potuto usufruire da parte di 8 istruttori, posso dire che erano tutti di assoluta eccellenza, per la grande conoscenza del funzionamento della struttura del cavallo e per la grande capacità a cavallo nell’ottenere, senza l’uso della forza, le giuste risposte. Questo avveniva perché alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo la qualifica di istruttore veniva conferita solo agli eccellenti: la conseguenza fu che quasi tutte le nazioni del mondo (33), con l’unica eccezione della Francia, mandarono i loro ufficiali a frequentare i corsi di equitazione a Pinerolo[6] dove la dottrina si è via via perfezionata fino a raggiungere l’eccellenza negli anni ’30 (cavalieri/istruttori: Ubertalli, Forquet, Formigli, Cossilla). Questa è stata la forza ma anche la debolezza della Scuola. Infatti nel dopoguerra sono stati utilizzati come istruttori anche quelli che non lo erano fino ad arrivare all’istruttore per meriti sportivi che, nello sport equestre, dipendono in proporzione maggioritaria dalle qualità del cavallo. Certamente nel dopoguerra è mancata in Italia una Scuola Nazionale di Equitazione per la formazione degli istruttori che avrebbe potuto essere costituita a costo zero appoggiandosi alla struttura militare. Oggi la situazione italiana è penosa anche perché il titolo di istruttore non si nega a nessuno e vi è un istruttore ogni tre cavalieri. All’estero, soprattutto negli USA ed in Nuova Zelanda, vi è ancora qualche istruttore e quindi qualche cavaliere che monta secondo i principi caprilliani. La conseguenza è che Caprilli è ricordato soltanto nei convegni nei quali si afferma, senza alcun riscontro con la realtà, che è il Padre dell’equitazione moderna: la verità vorrebbe infatti che si precisasse che è il Padre di quella che dovrebbe essere l’equitazione moderna!
Infatti, se il presupposto dell’equitazione caprilliana (sistema di equitazione naturale) è il rispetto della funzione dell’incollatura e delle reni del cavallo, ne deriva l’importanza preminente del rapporto tra la bocca del cavallo e la mano del cavaliere oltre alla capacità di questo di non gravare sulle reni del cavallo. Abbiamo visto che, come nell’uomo, l’addestramento del cavallo si comincia dall’insegnargli il giusto uso dell’incollatura: esso si ottiene mediante l’addestramento della sua bocca che si sensibilizza con la “mezza fermata”. In pratica si tratta di insegnare al cavallo la differenza tra la mano che cede (si lascia portare dalla bocca del cavallo) e la mano che resiste (alla quale il cavallo deve cedere con la mascella inferiore). Ma il cavallo, dopo la prima volta, cederà soltanto se la cessione è stata premiata con una maggiore libertà e comodità: poiché i riflessi del cavallo - animale da preda - sono tre volte più veloci di quelli dell’uomo, il premio dovrà essere istantaneo. Poiché la bocca del cavallo è sensibile come la nostra, la mano dovrà essere estremamente leggera e precisa: ma poiché attraverso le braccia è legata al corpo del cavaliere, questo dovrà essere sempre unito (sulla stessa verticale) al baricentro del cavallo. In caso contrario la mano tirerà sulle redini bloccando la funzione dell’incollatura e di riflesso anche delle reni che sono collegate attraverso la linea dorsale. Caprilli ha inventato un assetto ed una sella che consente al cavaliere di seguire e sentire il baricentro del cavallo nei suoi spostamenti più importanti. Ai tempi di Caprilli si usava molto, allo scopo di accentuare gli spostamenti del baricentro, la montagnola, presente ancora oggi in tutti i campi militari. Questo del sentire e seguire il baricentro del cavallo dovrebbe essere il principale obiettivo dell’istruzione a cavallo, soprattutto all’inizio. La sella deve essere equilibrata (il punto più basso deve essere al centro) e portare dei leggeri appoggi per le ginocchia del cavaliere in modo che possano avanzare verso la punta della spalla del cavallo ma anche fermarsi in apposito alloggiamento. Il cavaliere dovrà regolare la lunghezza degli staffili (che portano le staffe) in modo da poter fermare l’assetto, dal ginocchio alla staffa, allo scopo di poter resistere senza tirare mediante la spinta dei talloni in basso (azione già prevista dal Conte D’Aure). Nel contempo dovrà potersi sollevare dalla sella ed assecondare con le mani e con il corpo tutte le necessità dinamiche della linea dorsale del cavallo: tale azione, che si chiama ceduta, parte dalla staffa (giusto uso), sale per la parte posteriore dei polpacci, arriva al bacino e, con l’ausilio dell’inarcamento della schiena, arriva alle spalle e da queste alle mani che possono avanzare. L’effetto della ceduta è che il cavallo impara a “fidarsi” dell’uomo che lo asseconda e salvaguarda così la sua naturale predisposizione mentale ad avanzare: basta però una scarsa attenzione alla ceduta (richiede un lungo periodo di disciplinato esercizio) che viene meno la fiducia nella mente del cavallo e, di conseguenza, anche la volontà di avanzare (impulso).
Oggi, purtroppo soprattutto in Italia, i giovani vengono messi a cavallo seduti, proprio come si faceva prima di Caprilli: non sono quindi in grado di assecondare il cavallo che perde ogni desiderio di avanzare. Si insegna nelle scuole ad esercitare la forza con l’inforcatura, costringendo il cavallo alla spinta: ma essa, non potendosi manifestare attraverso l’oscillazione dorsale anche per l’effetto negativo del peso del cavaliere sulle delicate vertebre dorsali (osteopatia)[7], si affida anziché alle leve alla forza pura. Siamo tornati a prima di Archimede, oltre 2100 anni fa. Il cavallo peraltro comunica il suo malessere attraverso le difese (sottrazione o resistenza all’azione degli aiuti) ed il linguaggio del corpo (posizione delle orecchie e della coda) ma nessuno vi presta attenzione. Questo è particolarmente grave anche perché costituisce maltrattamento di animale (codice di tutela degli equidi)[8] dal momento che l’utilizzo del cavallo in difesa provoca delle compensazioni muscolari che ne determinano il declino prematuro. Se vi fosse una reale attenzione, da parte delle federazioni (quella svizzera ha dimostrato più attenzione delle altre), al benessere del cavallo, i presidenti di giuria dovrebbero richiamare e sanzionare almeno i cavalieri dei cavalli che mostrano difese plateali quali lo scalciare ripetuto dopo il salto, dimostrazione di uno sforzo doloroso ed innaturale, conseguenza di un addestramento che non rispetta i principi caprilliani dell’equitazione naturale. Infatti la vera grandezza di Caprilli risiede proprio nel fatto che è oggi il vero ed unico difensore del benessere del cavallo che si integra perfettamente con l’addestramento condotto secondo le Sue regole: proprio allo scopo di evitare che esse vengano dimenticate, ho pubblicato il sito “La Striglia” che viene letto in tutto il mondo, e scritto il libro “Equitazione Moderna nel segno di Caprilli”.
[1] Il proprietario di Oreste è il capitano Paolo Malfatti mentre la preparazione del cavallo è stata curata da Caprilli in persona
[2] Melopo sarà il cavallo con cui Caprilli, scottato dall’aver dovuto rinunciare alle gare parigine ma desideroso di dimostrare la sua superiorità, stabilirà il record del mondo di salto nel 1902 con 2,08 m, al concorso ippico di Torino
[3] Federico Caprilli, nato a Livorno l’8 aprile 1868. Studioso meticoloso ed appassionato, militare col grado di Capitano, capo istruttore alla Scuola di Cavalleria di Pinerolo, vanta numerose vittorie con i cavalli Vecchio e Montebello. Nel 1907 vince lo steeple-chase Ronciglione-Roma, in sella a Peuff, cogliendo anche il Premio Reale, confermandosi il miglior cavaliere italiano intorno al 1900
[4] Carlo Giubbilei,” Caprilli: vita e scritti”, Roma, 1909 / L.L. Edizioni Equestri, Milano 1976
[5] Lami – Gennero, “L’equitazione naturale e i maestri italiani”/L.L. Edizioni Equestri, 1977
[6] M. Badino Rossi, “Pinerolo, l’arte equestre italiana” pag. 435
[7] D. Giniaux, “Les chevaux m’ont dit”, Optipress 2003, pag. 63
[8] Ministero della Salute, “Principi di tutela e di gestione degli Equidi”, pag. 30, 2.4 – pag.42,8