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PIETRI Dorando

Mandrio di Correggio (RE) 16.10.1885 / Sanremo (IM) 07.02.1942

1908. Atletica Leggera. 1° ma squalificato nella Maratona, Eliminato Primo Turno 3 miglia a Squadre

I suoi genitori, contadini, nel 1897 si trasferiscono a Carpi dove aprono un negozio di frutta e verdura mentre Dorando lavora come garzone in una pasticceria. Magro e minuto (neanche 1.60m di altezza), inizia a correre...come ciclista: nel 1904 gareggia dietro moto nella Piazza d’Armi di Modena, ma una rovinosa caduta gli fa capire che è meglio non insistere. Passa dunque al podismo, quasi per divertimento, ma si accorge presto di avere una resistenza fuori dal comune e di poter ambire a traguardi importanti. Alla fine di quello stesso 1904 ottiene qualche buon risultato: percorre in un’ora 16,802 km ed a Bologna conquista il Campionato emiliano dei 1000. L’anno seguente insiste e si rivela quando guadagna, a sorpresa perché sconosciuto, il titolo italiano sui 25 km a Vercelli, sconfiggendo due mostri sacri dell’epoca come Volpati e Pagliani. I successi nel Campionato dell’Alta Italia, sul percorso Milano-Monza-Milano, e soprattutto in una gara a Parigi sui 30 km, impropriamente definita “maratona”, lo confermano asso in ascesa anche se è battuto in volata dal giovane Lunghi nel “Giro di Milano”. L’ascesa prosegue l’anno seguente: vince la prima maratona (40 km) cui partecipa, a Roma, e si guadagna la selezione per i “Giochi Intermedi” di Atene. Qui va subito in testa, con diversi minuti di margine, ma rimane vittima di forti disturbi intestinali e deve ritirarsi al 24° km. Stesso risultato nella maratona di Arona mentre è secondo, dietro al grande Pagliani, nel campionato italiano dei 25 km a Torino. Entra comunque stabilmente nel giro dei migliori podisti nazionali. Si conferma nel 1907 quando ottiene diverse vittorie di spicco tra cui il “Giro di Torino” anche se pochi giorni prima, nello stesso capoluogo sabaudo, è battuto dal sempre più convincente Lunghi nel “Giro dei Quattro Ponti”. Dopo altri successi tra cui il “Giro di Modena” sui 12 km, Pietri comunque dimostra di essere il miglior podista italiano nei “tricolori”, a Roma, guadagnando 5000 (col primato nazionale di 16’27”2) e 20 km dove stacca tutti sin dal primo km, compreso Pagliani, relegato alla piazza d’onore. A fine stagione domina il “Giro di Reggio Emilia” su 8 km. Sulle lunghe distanze nessun italiano sembra in grado di batterlo. L’inizio della stagione 1908 conferma questa situazione. “Giro di Pistoia”, “Giro di Verona” e “Coppa dell’Emilia” a Bologna lo vedono netto vincitore. Nei tricolori, nuovamente disputati a Roma, trionfa sui 20 km ma (il giorno seguente!) si ritira nella maratona, al km 33, stroncato da un’insolazione, quando è al comando assieme a Blasi che poi vincerà la prova. Il 7 luglio, a soli 17 giorni dalla maratona olimpica (!), ottiene a Carpi il record nazionale sui 40 km in 2h38’. Pietri dunque non arriva a Londra da sconosciuto anche se il suo avvicinamento, rapportato ai sistemi di allenamento dei nostri giorni, non appare dei migliori.

La prima gara dei Giochi di Londra in cui si cimenta è la corsa di 3 miglia a squadre del 14 luglio, una prova particolare in cui si parte tutti insieme, cinque per squadra, e la classifica viene decisa in base alle posizioni al traguardo (1 punto al primo, 2 al secondo e così via) dei primi tre arrivati per ciascuna compagine. Nella batteria i nostri si trovano di fronte britannici ed olandesi: i padroni di casa sono fortissimi (vinceranno l’oro) e degli azzurri giungono al traguardo solo Pagliani (5°) e Cartesegna (6°) mentre Pietri si ritira. Italia, ovviamente, subito eliminata. Passano dieci giorni ed arriviamo al 24 luglio, un momento storico per la storia dell’atletica e non solo per quanto accade in corsa: è difatti la prima volta che il percorso della maratona (partenza dal Castello di Windsor ed arrivo nello stadio di White City, costruito appositamente per i Giochi, davanti al palco reale) tocca le 26 miglia e 385 yards ovvero i 42,195 km. Cifra che poi, grazie al clamore suscitato da questa prova, verrà codificata come definitiva per qualsiasi maratona. Alle 14.33 partono 56 concorrenti di 16 nazioni in un caldo umido, insolito per Londra. I padroni di casa si scatenano nei primi km, ma a metà gara è in testa il sudafricano Hefferon, con Pietri tranquillo in un gruppetto a poco meno di due minuti che diventano 3’42” a 10 km dall’arrivo. Ma Dorando inizia una rimonta spettacolare, ben assistito ed incitato da Emilio Lunghi (argento nei 1500 in quell’edizione) che lo segue in bicicletta. Ancora oggi si discute molto se questa rimonta sia stata favorita, o meno, da una dose di stricnina assunta appositamente da Pietri, fatto peraltro usuale per l’epoca, che comunque raggiunge e supera Hefferon nei pressi di Wormwoods Scrubbs, a circa 2 km dalla conclusione. Sembra fatta, ma inizia la leggenda. Pietri entra per primo nello stadio, ma è stanco, soffre visibilmente. Davanti a 75mila persone che assistono impietrite alla scena, la sua andatura è goffa e barcollante, il suo stile “incoerente”, come lo definirà Arthur Conan Doyle (il creatore del celebre Sherlock Holmes) che sta seguendo la prova in tribuna per conto del “Daily Mail”. Pietri è allo stremo delle forze, non si regge in piedi, stralunato e quasi incapace di comprendere dove si trova. Appena entrato in pista, gira a destra invece che verso sinistra: richiamato e riportato sulla giusta via dalle furiose ed agitate indicazioni degli addetti, continua a barcollare e vacillare, la testa ed il tronco rivolti all’indietro, i passi lenti ed incerti alla stregua di un E.T. Si vive uno dei più grandi drammi sportivi del secolo.

Ad un certo punto, stremato, cade. In qualche modo, aiutato da addetti e giudici, si rialza e prosegue a stento. Cade altre volte, chi dice tre, chi quattro. Certo è che i giudici lo sostengono e lo sorreggono, lo aiutano a più riprese, quasi “spingendolo” fin sul traguardo oltre il quale cade esanime al suolo e sviene. Il suo tempo finale è di 2h54’46”, ma ha impiegato ben dieci minuti a coprire il tragitto nello stadio. Ha comunque mantenuto 32” sul secondo, lo statunitense Hayes. Caricato su una barella, incosciente, Pietri rimane due ore tra la vita e la morte mentre la Giuria, su reclamo degli americani, non può far altro che squalificarlo per “aiuti non regolamentari”. Ma la sua storia entra nel mito. Il giorno seguente, prontamente rimessosi, riceve un’apposita coppa d’oro dalle mani della regina Alexandra, rimasta così colpita dalla vicenda da rimanere quasi svenuta per la paura e l’emozione. I giornali fanno a gara per avere sue notizie, diventa l’uomo del giorno. Nasce qui quello che potremmo definire “il paradosso di Dorando”. Arrivato primo sul traguardo, ha perso la vittoria ma questa sua sconfitta lo rende immortale, come Ettore. Il clamore della maratona di Londra è totale, assoluto, globale. Si aprono sottoscrizioni in suo favore, tutti vogliono vederlo, complimentarsi: addirittura si scrivono canzoni su di lui. Pietri sfrutta la sua fama. Diventa professionista ed affronta a più riprese i suoi avversari di Londra, in memorabili sfide “testa a testa”. In America, al mitico Madison Square Garden di New York, esaurito in ogni ordine di posti, il 25 novembre 1908 batte Hayes, superato anche l’anno seguente quando Pietri si impone nelle maratone di St. Louis e Chicago. Quindi, dopo essersi sposato, nel 1910 trionfa pure a S. Francisco e Buenos Aires dove corre nell'ottimo tempo di 2h38’48”, suo primato personale. Sono questi i suoi anni d’oro, poi inevitabilmente inizia il declino: si perde in una serie di sfide talora cervellotiche, cercando ingaggi dovunque. Il 9 luglio 1911, ad esempio, a Modena affronta il grande ciclista Luigi Ganna che, in bicicletta, lo supera nettamente. A soli 26 anni Pietri, o semplicemente “Dorando” come lo chiamano tutti (perfino i giornali italiani), appare l’ombra di sè stesso. Alla fine di quello stesso 1911 abbandona le competizioni. Investe i suoi guadagni in un albergo, ma senza molta fortuna. Quindi si trasferisce a Sanremo dove, colpito da un malore, si spegne nel pomeriggio del 7 febbraio 1942, a 56 anni. Il suo mito ed il suo paradosso però sopravviveranno fino ai nostri giorni. Ancora oggi difatti è uno degli sportivi italiani più famosi al mondo, e non per una vittoria.


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