Responsabilità colposa in ambito sportivo. Nota a Cassazione penale, sez. IV, 28/10/2021 (dep. 15.03.2022), n. 8609, di Roberto Bertuol

Titolo/Oggetto

GIURISPRUDENZA PENALE

Estremi provvedimento

Cassazione penale, sez. IV, 28/10/2021 (dep. 15.03.2022), n. 8609 (Rv. 282764), ricorrente C.L. – Presidente Dovere – Est. Ranaldi - annulla con rinvio (ai soli effetti civili) Corte Appello Venezia 01.07.2020).

Massima

Ai fini della configurabilità della responsabilità per colpa in ambito sportivo, il giudice deve individuare la regola cautelare violata dalla condotta fallosa dell'atleta e, quindi, indicare, quanto alla colpa specifica, le regole di gioco scritte, anche se "elastiche" perché determinate in base a circostanze contingenti e, quanto alla colpa generica, il comportamento doveroso prescritto, sulla base della diligenza, prudenza e perizia, in concreto ed "ex ante", in relazione alle caratteristiche e peculiarità della pratica sportiva esercitata in un dato momento.

 

In applicazione del principio, la Corte ha annullato con rinvio la decisione impugnata che aveva affermato la responsabilità dell'atleta per le lesioni colpose cagionate da un fallo di gioco nel corso di una partita di calcio, ritenuto foriero di un rischio inutile e gratuito in rapporto al contesto amatoriale della competizione, omettendo di specificare la regola cautelare violata.

Keywords

RESPONSABILITÀ COLPOSA IN AMBITO SPORTIVO – INDIVIDUAZIONE DELLA REGOLA CAUTELARE VIOLATA – NECESSITÀ – ART. 590 C.P.

Commento/Sintesi

Il caso trattato dalla Quarta Sezione Penale trae spunto da un fatto avvenuto in occasione di una competizione calcistica amatoriale, disputata nelle fasi finali di un campionato provinciale. In tale contesto era accaduto che, mentre il ricorrente (nel ruolo di attaccante) percorreva la fascia sinistra del campo per recuperare la palla, che era stata lanciata verso la direzione della porta avversaria, la persona offesa (nel ruolo di difensore) era riuscita ad affiancarlo, facendogli allungare la palla in modo che egli non riuscisse più a recuperarla, per poi porsi tra lo stesso e la linea di fondo, per impedire all'attaccante il recupero del pallone che stava uscendo dal campo da gioco. Nella parte finale di questa azione, il ricorrente entrava in scivolata per cercare di tenere il pallone in gioco, ma colpiva la gamba dell'avversario, causandogli lesioni.

 

Il calciatore fu così tratto a giudizio per lesioni colpose (art. 590 C.P.), ma il reato era stato dichiarato prescritto, sicché il giudizio  proseguì in sede penale, poiché la Corte d’Appello di Venezia aveva confermato le statuizioni civili a carico dell’imputato, il quale, quindi, propose ricorso per Cassazione, lamentando violazione di legge e vizio motivazionale, in quanto la Corte territoriale non aveva ritenuto applicabile la scriminante non codificata del c.d. “rischio consentito” e non aveva congruamente motivato nemmeno sul nesso causale tra azione fallosa ed evento dannoso.

 

In particolare, il ricorrente, in relazione al contesto sportivo in cui si era verificato il fatto, invocava l'esimente che fa riferimento alla teoria del c.d. "rischio consentito", in base alla quale sarebbero giustificate determinate attività che - pur pericolose e, quindi, potenzialmente idonee a cagionare lesioni personali o persino la morte - sono consentite dall'ordinamento in quanto necessarie o comunque oggettivamente utili.

 

In linea generale, il “pericolo” che caratterizza alcune attività umane genera rischi che vengono, in buona sostanza, accettati dai consociati per svariate ragioni (si veda, ad es., il contesto della circolazione stradale, aerea e ferroviaria, etc.). Altre attività sono consentite, ed in tal senso vengono accettati i relativi rischi che il loro esercizio comporta, in quanto soddisfano esigenze di carattere ludico, ed in tale ambito rientra a pieno titolo l'attività sportiva, che è certamente lecita e giustificata dai benefici che la stessa apporta alla società in generale ed al benessere psico-fisico individuale di coloro che la praticano.

 

È evidente che da tale ambito esulano, però, le azioni volontarie realizzate al di fuori dell’azione di gioco (cfr., Sez. 5, n. 42114 del 4/7/2011), o che appaiono esagerate rispetto ad essa, tanto che l’autore abbia potuto percepire la loro lesività prima di porle in essere.

 

Nel caso di specie, i giudici del merito - con valutazione operata, tuttavia, “ex post”- avevano ritenuto di ravvisare la responsabilità del giocatore nel fatto che la sua “scivolata” sarebbe stata esorbitante rispetto allo scopo dell’azione intrapresa, sicché, in definitiva, avevano ritenuto che vi sarebbe stata un’inutile ed "eccessiva foga agonistica" che, dato il contesto amatoriale dell'incontro, avrebbe dovuto essere "placata", onde evitare il "rischio di conseguenze lesive non necessarie" e ritenendo così il fatto penalmente (e civilmente) rilevante in presenza dei due presupposti della volontarietà dell'infrazione e della abnormità della condotta (cfr., Sez. 5, n. 17923 del 13/02/2009).

 

I Giudici della IV sezione penale, nella sentenza in commento, ritengono, però, che “la teoria del c.d. "rischio consentito", pur cogliendo un effettivo aspetto del tema, non sia “soddisfacente per individuare in termini giuridicamente apprezzabili il discrimine tra condotte lecite e illecite nell'ambito di danni fisici procurati nell'esercizio di attività sportive. L'affermazione secondo cui il "rischio consentito" è quello accettato dall'atleta in relazione al rispetto delle regole tecniche per la pratica sportiva di riferimento, per cui la esorbitante violazione di tali regole ricondurrebbe la condotta antisportiva nell'area del penalmente rilevante, derivandone una lesione non previamente accettata dall'atleta, non risolve il problema di delineare i criteri giuridici da seguire per affermare se un fatto lesivo commesso nel corso di un'attività sportiva sia concretamente una condotta tipica penalmente (e/o civilmente) rilevante”.

 

La conclusione tratta è che, nello sport, il ricorso alla scriminante non codificata del rischio consentito sarebbe privo di utilità pratica.

 

Al di là di questo aspetto, la sentenza evidenzia profili di grande interesse quanto all’individuazione del confine tra illecito sportivo ed illecito penale.

 

Il problema viene affrontato con taglio non privo di originalità, laddove viene sottolineato che anche la verifica della colpa sportiva deve effettuarsi in base agli ordinari criteri stabiliti dall'art. 43 C.P., in particolare riscontrando l'eventuale violazione della regola cautelare, generica o specifica, non corrispondente alla regola tecnico-sportiva in astratto applicabile.

 

In motivazione si afferma, altresì, che le regole sportive e le norme penali e/o civili (da cui discendono regole cautelari giuridicamente rilevanti) hanno struttura e funzioni diverse, in nessun modo sovrapponibili: “le regole sportive strutturano la relativa disciplina e hanno lo scopo di delineare le modalità di esercizio della stessa, onde consentire il regolare svolgimento della competizione e ai soggetti coinvolti (principalmente gli atleti, ma anche altri soggetti quali arbitri, allenatori ecc.) di essere consapevoli delle conseguenze di determinate azioni e comportamenti commessi durante la pratica sportiva”.

 

In definitiva, le regole delle varie discipline sportive non sono necessariamente regole di cautela, diventando tali solo quando sono poste per evitare/vietare condotte potenzialmente lesive (come, ad esempio, il divieto di colpi sotto la cintura nella boxe). Quindi la violazione di una regola del gioco che sanziona un fallo di gioco non può, al contempo, dar luogo a colpa penale, perché quelle regole definiscono comportamenti resi leciti dalla accettazione da parte di tutti i partecipanti, mentre sono, per contro, illeciti quei comportamenti che non sono riconducibili al gioco, pur nelle sue espressioni pericolose, o perché intenzionalmente diretti a procurare danno alla persona, oppure perché, siccome in contrasto con il principio di lealtà sportiva, sono estranei all'ambito di applicazione delle regole del gioco.

Autore

Avv. Roberto Bertuol

 

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